RACCONTARE LA STORIA NELLE SCUOLE

Di Annita Garibaldi Jallet

Tra i testimoni ancora in vita della Shoah e dei milioni di vittime della guerra e della deportazione durante l’ultimo conflitto mondiale, in tanti non sono riusciti ad evocare i loro ricordi prima che fossero passati molti anni. Dovevano eliminare da quella memoria superficiale che ci permette ogni giorno di riprendere il corso della nostra vita l’orrore di un vissuto insuperabile e paralizzante. Dovevano scegliere il ritorno alla vita, agli affetti, alla luce, al benessere ritrovato, senza guardare indietro, senza rimpiangere i compagni morti, senza odiare i carcerieri, e vivere senza coloro che dovevano essere la loro famiglia, senza nulla dei loro beni, delle cose e dei luoghi amati. Ricominciare. Quanti non sono mai più tornati a Berlino, a Cracovia, quanti esuli non sono tornati nel paese che li ha cacciati? Solo quando hanno ritrovato una identità personale ed un rapporto accettabile con il mondo hanno avuto la forza di guardare dentro se stessi, di tramutare la pura sofferenza in parole, in valori, e sono rinati a quella memoria che costruisce la storia. Ci sono voluti anni. Eppure questi novantenni hanno ancora le loro emozioni a fior di pelle. Lo si vede negli occhi che luccicano, nella voce che trema, non per l’età ma perché è difficile non urlare di dolore e non chiedere, stremati davanti all’incomprensibile, ancora e sempre: perché? Non è venuta mai la risposta. La memoria non è riuscita a farsi totalmente storia.

Ma chi ha la fortuna di essere invitato a narrare la storia nelle scuole, oggi, incontra un altro “perché”. Un perché bello e innocente, un perché che aspetta veramente una risposta. Il perché dei ragazzi, qualche volta quasi dei bambini, che davanti ai fatti che vengono loro narrati, vogliono capire, inserire il passato nel loro vissuto attuale. Lo si vede quando si va a parlare, per esempio, della nostra Costituzione. A loro sembra molto vecchia: durante la seconda guerra mondiale e subito dopo sono nati i loro nonni. Non hanno memoria della festa che fu il ritorno alla libertà, al diritto di voto, alla legalità. Poco a poco se ne andò la paura, e ancora prima la fame. La paura, la capiscono, soprattutto i piccoli. Bisogna narrare le nostre Costituzioni come paletti della nostra storia, simbolo della continuità della vita comune del nostro popolo su un territorio che si è andato definendo nel tempo. Volendo si può partire da Napoleone I, Re d’Italia. Fu per poco ma fa effetto. Appare l’idea di una unità possibile, sotto leggi e principii comuni. Tutto finisce lì, l’Italia sembra ingabbiata e mantenuta a piccoli pezzi da un destino crudele. Ma la linea guida è ormai tracciata da Giuseppe Mazzini. Ci vuole una primavera dei popoli, il 1848, perché si cambi epoca. Travolge anche l’Italia e coloro che l’hanno sempre sognata, costruita idealmente ma anche concretamente su principi liberali: mercato, sviluppo economico e delle genti. Si cambia moderatamente, a colpi di insurrezioni che tra martiri e esiliati costruiscono il pantheon del patriottismo nazionale. Si mette tutto questo, nel 1849, in una Costituzione, quella della Repubblica Romana, la più bella del mondo, che dura un giorno. Ma non scompare mai più perché traduce l’animo di un popolo che già esiste. Una modesta Costituzione, così timida che la si chiama Statuto, appare nel Regno di Sardegna, attorno al quale si costituisce uno Stato che ha paura della sua nazione. Nell’anno della Repubblica Romana e del Manifesto di Marx, noi italiani abbiamo una costituzione che ci è concessa, siamo dal sovrano chiamati regnicoli. Però abbiamo un Primo Ministro di cultura europea, Cavour, e un Re. All’unità territoriale ci pensa un bell’eroe romantico, cavallo bianco e camicia rossa, Giuseppe Garibaldi. Bisogna spiegare perché dobbiamo entrare in Roma da una breccia, a Porta Pia. Qualche ragazzo ride.

E finiamo nella Grande Guerra, che, si dice, costruisce la nazione. La guerra, no, non piace perché alimenta il nazionalismo e le dittature che portano alla Seconda guerra mondiale. Riannodare il filo di una libertà che molti italiani nel 1943 non hanno mai conosciuto si può fare, tornando a quei principi del 1849, meravigliosa magia dei numeri che vuole che la Costituzione nasca nel 1948, di due anni preceduta dal suffragio universale maschile e femminile e della lunga lotta di un popolo martoriato. La Resistenza entra di pari passo nel nostro credo democratico, la sofferenza dei vinti nella nostra pietas umana.

Perché, chiede il giovane pubblico, ci voleva tanta morte per vivere? Non vuol sapere molto della guerra, vuole sapere della vita che dovrebbe scaturirne migliore. E questo non è facile da dimostrare. Certo, viene la pace, ma su quali principi? Si vorrebbe continuare sul filo della storia di libere nazioni restituite alla legittimità e alla sovranità che assieme si danno una Costituzione unica, europea, premessa di una legge universale. Ma i federalisti europei non pensavano che si sarebbero ricostituiti gli Stati nazionali. La nazione è un sentimento, non solo una politica. Ma, dicono i più giovani, perché lottare con istituzioni retrograde contro i nazionalismi persistenti? Vogliamo lottare per l’ambiente che ha dimensioni globali dentro alle frontiere nazionali? Vogliamo rispondere a masse umane in mobilità dentro alle frontiere nazionali? No, certo. A sfide moderne occorrono risposte moderne. E allora cosa bisogna fare? Le leggi basteranno a ostacolare il razzismo, a salvaguardare la libertà, a stabilire l’eguaglianza? Sappiamo che le leggi e le Costituzioni nascono per codificare lo stato raggiunto dalla società, non il contrario. La cultura che muove le leggi di domani nasce oggi, è costruita sui banchi della scuola, con lo studio e la curiosità dei giovani, con la loro voglia di pace, di libertà. Occorre pensare alla storia, alla nostra e a quella degli altri, al senso del valore della persona umana. La via del progresso umano e civile ha profonde e sicure radici, nella memoria e nella storia. Ma va difeso e combattuto giorno per giorno. E’ proprio la storia che lo insegna.